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La realtà è che dopo un anno di lockdown siamo tutti distrutti

29 Aprile 2021

Un tempo la funzione Ricordi di Instagram, l’Accadde oggi di Facebook, mi rimandavano immagini di me stessa, magari in viaggio, di solito anche ben vestita. Oggi, invece, l’algoritmo non ha solo memorie piacevoli da riportarmi con nostalgia, anzi: pare che ogni giorno lo spirito di Zuckerberg mi segnali – con ben poca grazia – che avevano ragione Christa Wolf e William Faulkner: “Il passato non è morto e non è nemmeno passato”. Dodici mesi fa ero esattamente dove sono adesso, nelle stesse condizioni: in casa, a scrivere e lavorare in pigiama senza sapere quando quando potrò dismettere le occupazioni, vestirmi e uscire, perché fuori c’è una città intera, compagnia migliore dei miei pensieri. La città c’è ancora, ma sulla faccia di ogni abitante che incrocio mentre vado a fare la spesa, e di cui vedo solo gli occhi, non una pausa dalle mie paure ma un possibile pericolo di cui, nel caso, posso trovare traccia in una app governativa.

Ho pensato molte volte a quanto accaduto nella mia esistenza e in quella degli altri nel corso dell’ultimo anno, ma oggi lo faccio poco, è un argomento che fa da trigger a valutazioni pessimistiche, tristi, rassegnate. Se guardo alla situazione con oggettività, non credo di potermi lamentare, eppure basta uscire appena fuori dalla prospettiva razionale e mi lamento eccome. Non mi manca niente, ma ho bisogno di tutto. Come molti altri ho necessità di qualcosa che non avrei mai detto: la percezione della folla per strada come un fatto gioioso, che sa di domenica mattina, di partita allo stadio, di concerto, di festa comandata, di passeggiata appena uscita dall’ufficio, perché per quanto sia stato pesante il carico di lavoro, oggi c’è il sole e allora tanto vale poggiare il peso da qualche parte e vivere, vedersi con un’amica per un aperitivo, parlare dei progetti per le vacanze estive e chiedersi reciprocamente: dove vuoi andare quest’anno? A sentirmi fare questa domanda oggi, risponderei con una parolaccia. A tuffarmi in una strada affollata, provo la sensazione di scontrarmi, disarmata, con un plotone.

La scorsa settimana, la newsletter di DiveThru, società canadese che si occupa di benessere mentale e che offre tramite app varie risorse per affrontare i momenti difficili, aveva come oggetto la scorsa settimana “abituarsi a stare di nuovo in pubblico” e come hashtag #divingthru la sfiducia verso gli estranei. Perché sì, a pensarci bene, se prima della pandemia non pensavamo troppo a chi fossero gli sconosciuti incrociati per strada, con cui scambiarsi una battuta rapida o magari allungare una mano per presentarsi, oggi queste due semplici azioni possono rappresentare un fattore di ansia e di rischio. Premesso che a seconda della regione in cui si vive si affrontano limitazioni varie, anche quando c’è la possibilità di sedersi al tavolino di un caffè, recarsi dal parrucchiere, salire a bordo di un treno, mangiare al ristorante, il blocco può farsi emotivo.

Conosco chi, prima e dopo un incontro con amici, ha preferito pagare e passare per la trafila del tampone rapido; all’opposto ci sono io che sperimento il languishing, un senso non di totale scoramento, non di burnout, ma di lento sfumare di motivazione. Passare più di un anno di pandemia con il costante richiamo a mantenere le distanze significa avere un allarme pronto a lampeggiare in un angolo del cervello non appena ci ritroviamo in presenza di altre persone. Vivere oltre questa paura è difficile, soprattutto se a provarla senza farci i conti è un Paese intero.

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