COLPISCE proprio nel fiore degli anni, in media tra i 15 e i 35 anni e travolge ogni progetto di vita. E’ la schizofrenia, un disturbo che – secondo gli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità – in Italia fa ammalare circa 245.000 persone con un tasso di mortalità di 2,5 volte maggiore rispetto a quello della popolazione generale e un rischio di suicidio intorno al 10%. A tracciare il quadro dell’impatto che questa malattia può avere è la ricerca Vivere con la schizofrenia: il punto di vista dei pazienti e dei loro caregiver, realizzata dal Censis con il contributo non condizionato di Lundbeck e Otsuka, che è stata presentata oggi a Roma.

. COLPISCE DA GIOVANI
La schizofrenia è una grave malattia mentale dai sintomi complessi che possono provocare significativi cambiamenti comportamentali. Nella ricerca realizzata dal Censis su un campione di 160 pazienti con diagnosi di schizofrenia e su un campione di 164 familiari di pazienti, l’esordio più frequente si registra in media a 23,5 anni, ma il percorso che porta alla diagnosi dura circa 3 anni.

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IL RITARDO NELLA DIAGNOSI
Cosa fa una persona che inizia ad avere i primi sintomi della malattia? Il 59% dei pazienti si è rivolto a uno specialista: in circa il 40% dei casi a uno specialista pubblico, mentre nel 19% a un professionista privato. Tra gli specialisti, gli psichiatri sono stati i medici più consultati (34%), mentre lo psicologo è stato indicato da circa il 12%. Poco più di un paziente su quattro ha ricevuto la diagnosi di schizofrenia alla prima visita (il 27,2%), mentre il 15% ha ottenuto l’inquadramento della patologia dopo oltre cinque controlli, il 12,6% dopo tre o quattro consulti medici, l’8% dopo il secondo incontro. “Rispetto ai 245mila pazienti censiti dall’Istat – dichiara Fabrizio Starace, presidente della Siep-Società italiana di epidemiologia psichiatrica –  i servizi di salute mentale ne intercettano poco più della metà. Infatti, sono 150mila le persone con schizofrenia che sono in contatto con i dipartimenti di salute mentale. Mancano all’appello, quindi, circa 1oomila persone e dobbiamo chiederci dove sono e soprattutto come migliorare la nostra capacità di fare diagnosi”.

LA FIDUCIA NEI MEDICI
Come in tutte le malattie, la fiducia riposta nei confronti del proprio medico costituisce un fattore essenziale.  “Anche se molti pazienti hanno cambiato in media ben quattro medici dall’inizio della diagnosi – dichiara Ketty Vaccaro, responsabile dell’area Welfare e salute del Censis – il 72% dei pazienti è soddisfatto della capacità del proprio medico di coinvolgerlo nella scelta della terapia e il 71,5% per l’efficacia dei farmaci”. Il giudizio positivo nei confronti dei farmaci prescritti si traduce in buoni livelli di compliance: il 66% dichiara di non scordare mai di assumere le medicine e il 20,3% di prenderle la maggior parte delle volte. Nonostante il paziente possa godere di lunghi periodi di remissione dalla sintomatologia, è frequente la possibilità di ricadute: è rilevante il numero di pazienti (il 22,9%) che nel corso dell’ultimo anno ha avuto un ricovero in ospedale o in una clinica privata a seguito di una ricaduta.

L’IMPATTO SOCIALE
L’impatto della schizofrenia è sin dai primi sintomi di grande rilevanza: il 42% dei pazienti considera la qualità della propria vita prima dell’inizio dei trattamenti sotto la media (17,8%) o scarsa (24,3%). L’attività lavorativa è stata largamente pregiudicata dal sopraggiungere della patologia: il 47% ha dovuto lasciare il lavoro, il 25% ha perso ore di lavoro, il 23% è stato costretto a cambiare attività lavorativa e il 16% ha ridotto il tempo dedicato alla propria occupazione. La precoce età media di comparsa della patologia ha impedito al 33,8% di ultimare il percorso scolastico, mentre il 12% ha dovuto modificare il corso di studi. “L’esordio precoce della malattia risulta fortemente condizionante per la realizzazione professionale – dice Ketty Vaccaro. Per il 35% i pazienti sono disoccupati, a fronte di circa solo il 7% nelle corrispondenti fasce d’età della popolazione generale.

VITA SENTIMENTALE NEGATA
Questa malattia ha un forte impatto anche sulla vita di coppia: “Tra i pazienti oltre l’80% è celibe o nubile, contro il 35% della popolazione corrispondente. Solo le donne nelle quali l’insorgenza della malattia arriva un po’ più tardi, hanno avuto occasione di sperimentare un rapporto di coppia” spiega Vaccaro. Non è dunque un caso che le aspettative nei confronti del sistema dei servizi si focalizzino proprio sullo sviluppo dell’inserimento lavorativo e delle attività di socializzazione, per rendere possibile una convivenza con la patologia sempre più accettabile e meno penalizzante”.

DISAGIO E FRUSTRAZIONE
E anche se la solidarietà non manca, è inevitabile che questi pazienti si sentano soli e impotenti di fronte alla loro malattia. Infatti, a fronte del 59,7% che indica di aver ricevuto attestati di solidarietà da parte dei propri conoscenti, sono prevalenti le esperienze di frustrazione, disagio ed emarginazione: il 75,2% nasconde o non parla a nessuno della sua malattia, il 70,5% si sente discriminato, il 63,8% teme che i sintomi diventino evidenti in certe circostanze.

I CAREGIVER
Come spesso accade, a prendersi cura dei pazienti sono nella maggioranza dei casi i familiari. Quasi il 71% (l’84,2% dei più giovani) ha un parente in casa che si prende cura del suo benessere. Principalmente se ne occupano i genitori (54,8%), un fratello o una sorella (19,1%), il partner (11,5%). Il ricorso al personale esterno è limitato a poco meno dell’8% dei casi. L’impegno richiesto è particolarmente gravoso e si divide tra ore dedicate all’assistenza (in media i caregiver dedicano a queste funzioni 12,3 ore della giornata) e alla sorveglianza (12,8 ore in media).

L’impatto emotivo e la fatica fisica legata all’attività di assistenza del malato determinano ricadute di diverso tipo. Il 63% dei caregiver si sente fisicamente stanco, il 43,5% non dorme a sufficienza, il 23,2% è dovuto ricorrere a supporto psicologico. Il 37,8% ha modificato alcuni aspetti della propria vita lavorativa, con un impatto che per molti si è tradotto concretamente nell’abbassamento del proprio livello reddituale. In particolare, il 24,5% è andato in pensione anticipata, il 15% ha rinunciato alla ricerca di un lavoro e si è dedicato interamente all’assistenza del familiare. Il deterioramento della coesione familiare costituisce un ulteriore effetto: per il 57,6% dei caregiver le necessità di assistenza del malato hanno determinato malcontento tra i componenti del nucleo familiare, il 32,6% segnala frustrazione per non riuscire ad adempiere appieno ai propri doveri familiari e il 17,4% segnala un impatto anche sulla propria relazione di coppia.

LE TERAPIE
Quasi il 70% del campione è al momento in cura con farmaci per via orale, mentre il 49% si sta sottoponendo a terapie per via iniettiva a rilascio prolungato. Tra i più giovani è maggiore l’utilizzo di terapie più innovative (43%). “Il problema del ricorso ai farmaci di nuova generazione è che sono indubbiamente costosi ma spesso necessari e non comprendo perché in psichiatria sia molto forte la richiesta di tagliare i costi nonostante l’Italia sia agli ultimi posti in Europa per spesa farmaceutica. Eppure nessuno negherebbe mai un farmaco di ultima generazione ad un paziente oncologico” dichiara Bernardo Carpiniello, presidente della Sip-Società italiana di psichiatria. Dalla ricerca del Censis emerge anche che il 62% ha beneficiato di sedute di psicoterapia, il 33% è ancora in trattamento mentre il 29% vi si è sottoposto in passato e ora le ha interrotte.

VIVERE SOTTO TRACCIA
C’è ancora timore di essere giudicati e stigmatizzati per la malattia, quasi una vergogna che porta non solo il paziente ma anche i caregiver a nascondere i sintomi della schizofrenia. Infatti, il 71% dei caregiver non parla con nessuno della malattia del proprio familiare e il 68% teme che possa essere discriminato a causa della malattia. “Oggi ci portiamo dietro un peccato originale che è l’esigenza primaria non tanto di curare ma tenere sotto controllo la malattia che è cosa ben diversa – dichiara Alberto Siracusano, presidente della Sopsi-Società italiana di psicopatologia. È necessario integrare all’interno del disturbo anche gli aspetti legati all’impatto della malattia sulla vita quotidiana. Serve una nuova cultura della salute mentale perché i disturbi cominciano sempre più precocemente e il rischio è che le nuove generazioni affette da questi disturbi vadano ad informarsi male sui social. Invece, serve un’informazione empatica, cioè che sia emotivamente capace di far comprendere questa malattia e il suo impatto”.

Da Repubblica