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“Depressione: dormite 3-4 ore a notte, ma l’effetto della cura dura poco”

11 Ottobre 2017

Uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Psychiatry sostiene che la privazione di sonno potrebbe aiutare a migliorare i sintomi. Ma l’effetto è solo temporaneo: attenzione alle ricadute e soprattutto al fai da te.

di SANDRO IANNACCONE

DORMIRE poco per combattere, almeno temporaneamente, i sintomi della depressione. Un’idea che ha appena trovato nuova linfa grazie ai risultati di un metastudio (ovvero di uno studio che mette insieme e rianalizza criticamente le principali evidenze disponibili su un dato argomento) condotto dall’équipe di Philip Gehrman, della Perelman School of Medicine alla University of Pennsylvania, e pubblicato sulle pagine del Journal of Clinical Psychiatry. Gli autori del lavoro, in particolare, hanno passato in rassegna i risultati di 66 studi sulla correlazione tra privazione del sonno e sintomi depressivi, scoprendo, per l’appunto, che dormire per 3-4 ore a notte e trascorrere svegli le restanti 20-21 ore aiuta a migliorare, nella metà dei pazienti trattati e nel giro di poche ore, i sintomi della depressione. Molto più velocemente di quanto non facciano le terapie farmacologiche, la cui azione inizia a manifestarsi solo diverse settimane dopo l’inizio del trattamento. Tuttavia, c’è un rovescio della medaglia: il miglioramento dei sintomi è infatti tanto veloce ad arrivare quanto a scomparire.

I precedenti. Lo studio degli effetti terapeutici della privazione del sonno non è nuovissimo. Fu Johann Christina August Einroth, uno psichiatra tedesco vissuto nel diciannovesimo secolo, ad avere per primo l’intuizione di una “terapia della veglia” per trattare una condizione psichiatrica al tempo definita melancolia, che aveva molti tratti in comune con la moderna depressione. Un’idea cui la comunità scientifica è tornata a interessarsi verso la metà degli anni ottanta: “La privazione del sonno”, spiega Gehrman, “è un’area di ricerca di grande interesse per gli psicologi e gli psichiatri, che da oltre trent’anni cercano di capire se e come, combinata con trattamenti farmacologici, possa alleviare i sintomi della depressione. Tuttavia, ancora non si conosce bene quale sia il meccanismo d’azione, quale la reale efficacia terapeutica e quale la strada per massimizzare i risultati”. Nel compilare il metastudio, gli autori si sono concentrati su 66 articoli di ricerca – una selezione dell’intero corpus di oltre 2mila lavori – classificando i risultati in base a età e genere dei pazienti coinvolti, trattamenti farmacologici in corso e tipo di privazione del sonno (totale, parziale, anticipata o ritardata).

I limiti. Il risultato dell’analisi ha mostrato che la privazione del sonno era efficace in circa la metà dei soggetti trattati, indipendentemente da età, genere e altre variabili. I benefici si sono rivelati però piuttosto effimeri: la maggior parte dei soggetti trattati ha riportato infatti un ritorno dei sintomi qualche giorno o, al più, una settimana dopo la privazione del sonno. “La deprivazione del sonno è una tecnica nota e promettente”, spiega a Repubblica Claudio Mencacci, direttore di neuroscienze al Fatebenefratelli Sacco di Milano, “che produce un miglioramento nei sintomi depressivi in circa la metà dei pazienti trattati, ma purtroppo l’85% di loro ha delle ricadute. Si tratta perciò di un intervento di secondo livello, cui si ricorre in associazione a terapia farmacologica e light therapy”.

Niente fai-da-te. Attenzione, però, al fai-da-te: accanto ai risultati incoraggianti della ricerca sulla privazione volontaria del sonno è bene sottolineare che i disturbi cronici sono ben altra cosa, che vanno valutati tempestivamente da medici esperti: “La privazione cronica del sonno, dovuta per esempio a malattie croniche come l’insonnia, è uno dei precursori più comuni della depressione”, continua Mencacci. “E l’insonnia è associata a deficit cognitivi, cardiologici e metabolici. Per questo i pazienti che soffrono di disturbi del sonno devono rivolgersi al più presto al proprio medico, che saprà indirizzarli verso i trattamenti più efficaci”.

Da La Repubblica

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