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Terrorismo, il ruolo dell’emulazione tra i jihadisti

20 Luglio 2016

Anti-sociali che vogliono uscire dall'anonimato. Così imitano i 'martiri', come se le stragi fossero videogame. Ecco cosa succede nella psiche dei lupi solitari.

Di Francesca Buonfiglioli

Emulazione. Così si chiama la minaccia che pesa su tutta Europa dopo la mattanza di Nizza e l’aggressione a colpi d’ascia e al grido di Allah Akbar di un 17enne afghano contro alcuni passeggeri su un treno a Würzburg, in Baviera.
Lo ha ribadito il ministro francese della Difesa, Jean-Yves Le Drian. «Dopo quanto successo in Germania, si capisce bene che la minaccia è ovunque e che ci sono rischi di emulazione», ha dichiarato giustificando la proroga dello stato di emergenza, «quando ci sono eventi del genere, c’è il rischio di repliche. L’abbiamo visto in Germania lo potremo vedere ovunque».
Bisogna però evitare facili e fuorvianti generalizzazioni.
IL NICHILISMO OFFERTO DA DAESH. I soggetti a rischio emulazione, spiega a Lettera43.it Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria, «sono giovani disadattati, nichilisti che abbracciano via web, e quindi in modo totalmente virtuale e rapidissimo, la causa Daesh solo perché garantisce loro una visione radicale di rifiuto del mondo in cui si riconoscono emotivamente».
Si tratta di persone senza identità. «La pescano in Rete», indossando «un abito che non è mai stato loro».
Qualsiasi individuo con tendenze antisociali e nichiliste può così improvvisarsi soldato dell’Isis, jihadista.
«Trova una copertura ideologica che lo incita ad agire e come ‘premio’ ottiene la prima pagina», dice Mencacci. La fama, la gloria. Unendo «la megalomania, la grandiosità, l’esibizionismo a situazioni di violenza estrema».
IN RETE NON C’È SELEZIONE. Non si tratta di terrorismo ‘tradizionale’, dove «i reclutatori fanno screening ed escludono dai propri piani organizzati chi è inaffidabile e confuso».
In Rete non c’è selezione. La propaganda di Daesh «aizza le azioni che necessitano di organizzazioni meno elaborate, il gesto dell’individuo che si dà un’identità attraverso il web».
Per questo, «l’emulazione, il compiere un atto clamoroso che trasforma in martire ed eroe, pone anche il problema di quanta amplificazione dare a questi gesti, che a loro volta generano un ‘contagio’».
Lo si è visto nel caso dei suicidi. «I casi aumentano», è il ragionamento, «se a togliersi la vita è una rockstar, un personaggio famoso». Per cui scatta l’associazione  «io sono come lui».
Purtroppo non è una novità. In passato, continua Mencacci, «identità nichiliste si sono viste in comportamenti di deviazione sociale, di vandalismo casareccio, di malavita con sistemi culturali alla Gomorra».

Il potere delle immagini e l’autocelebrazione dell’aspirante jihadista

Nibras Islam dopo la radicalizzazione nelle immagini pubblicate da Site.

Nibras Islam dopo la radicalizzazione nelle immagini pubblicate da Site.

La propaganda, l’ideologia targate Isis così ‘carismatiche’ offrono «un modello ricco di simbologia, un punto di riferimento che affranca soggetti fragili, anche depressi e che tendono a percorsi in solitudine, dal loro anonimato egodistonico», aggiunge a Lettera43.it Giulio Vasaturo criminologo della Sapienza. «E cioè vissuto come disagio e inadeguatezza sociale».
LA STRUMENTALIZZAZIONE DI DAESH. Dinamica simile a quella che animava lo spontaneismo armato di destra, per esempio e che si «alimenta di fanatici psichiatricamente fragili».
Emuli che, spiega Vasaturo, «sposano una mission: sia essa liberare il mondo dalle prostitute o dai peccatori».
Nel caso di Nizza, però pare che Mohamed Lahouaiej Bouhlel fosse in contatto con noti esponenti del radicalismo islamico. «Non possiamo parlare di emulazione pura. Il killer si è fatto più o meno consapevolmente strumentalizzare da Daesh, diventando di fatto uno strumento in mano all’organizzazione terroristica».
Se al Qaeda usava giocare sulla povertà degli aspiranti jihadisti, indottrinandoli nelle madrasse e promettendo loro di mantenere dopo il martirio le famiglie ridotte alla fame, il Califfato si serve per la sua manovalanza dell’orrore di persone instabili, emarginate, violente.
IL RISCHIO DI CREARE EROI. Come Mencacci, anche il criminologo punta il dito contro un certo tipo di comunicazione che tende a «eroicizzare» e a favorire l’emulazione. «Il problema è etico: è possibile contenere la rappresentazione mediatica?».
Le immagini hanno un potere devastante.
In primo luogo quelle realizzate prima degli attacchi e poi diffuse in Rete in cui gli jihadisti «si autocelebrano in un’ottica istrionica». L’ultimo è il video pubblicato dal Califfato in cui il 17enne afghano responsabile dell’aggressione sul treno annuncia: «Farò un attentato suicida in Germania. Vi combatterò fino a quando il sangue mi scorrerà nelle vene».
In seconda battuta quelle girate subito dopo le stragi.
LA MORTE IN DIRETTA. Tutti possiamo diventare comunicatori, basta un cellulare o una videocamera.
Lo si è visto a Nizza e ai video delle vittime diventati immediatamente virali. «Immagini violente che ricordano i death video che giravano tempo fa e che attiravano la morbosità di soggetti disturbati».
Solo che adesso la morte è in diretta e alla portata di tutti.
COME IN UN VIDEOGAME. «Non solo c’è il rischio emulazione», mette in guardia Vasaturo, «ma di una diversa percezione dell’esito dell’azione». In altre parole, queste personalità squilibrate vivono «il gesto che stanno compiendo come fosse un videogame. Hanno una rappresentazione di sé alienata, distante da sé». E allo stesso modo vedono la vittima «della quale non viene percepita la tragedia. Ma è ridotta a un essere da annientare».
Insomma: il killer jihadista si sente un avatar che elimina altri avatar.
LA MORTE COME SENSO. Con una differenza, però: «Nel terrorismo chi agisce non esclude la propria morte. Anzi è proprio la morte che dà senso a una vita considerata inutile, anonima».
Un senso «che si ottiene anche grazie al clamore mediatico», spiega Vasaturo.
Anche per questo «è difficile qualificare questi individui come terroristi, eversivi o sovversivi».
E più l’attacco è realizzato con mezzi presi della quotidianità, un tir lanciato sulla folla o un’ascia, e contro un soft target più aumenta il senso di «invincibilità».
Per l’intelligence che monitora il radicalismo «è difficilissimo prevenire l’atto di un folle qualsiasi. Per contrastare questa minaccia servono segnali forti. E mettere in chiaro che si tratta di criminali privi di scrupoli che possono essere messi nelle condizioni di non fare del male».

Da Lettera43

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